Giorgio Siciliano + Chiara Colombo
EPISODIO 2
È Shakespeare che si rifugia in casa mentre il mondo precipita nel silenzio e nel buio. È la storia di un ricordo che ritorna e trafigge l’anima. È un dialogo estenuante con la propria solitudine mentre il suono delle sirene sovrasta le parole. È il momento in cui il mondo torna a respirare nella luce e nel rumore delle strade e delle piazze. È infine Ophelia che ritorna.
La serie nasce da un’idea di Giorgio Siciliano che si chiede cosa sarebbe successo se Shakespeare si fosse innamorato di uno dei suoi personaggi più celebri, Ophelia. Si chiede se mai si sia sentito in colpa per aver creato una donna così eterna per poi decidere di farla impazzire e di ucciderla.
Dall’incontro con Chiara Colombo nascono le illustrazioni di questa serie. In ogni episodio, attraverso un genere letterario diverso, Dapprima tremendo fu il silenzio racconta di questo dramma e di questa resurrezione.
Il secondo episodio è un monologo drammatico in prosa, il delirio di Shakespeare, scritto da Giorgio, accompagnato da due illustrazioni di Chiara.
Che strano pensare a te, andata via soffocando, mentre cammino avanti e indietro nel mio salotto e conto i miei, di respiri.
E così sono stato tutta la mattina, di pudiche stelle che si nascondono e di fredda techno music ammazza pensieri, a guardarmi l’addome davanti allo specchio, a mettermi poi di profilo e a farmi passare la mano sul ventre seguendo il corso della mia pancia glabra e del mio pube pudico infiammato di forse cristiano cattolico? Pulsano le mie interiora a ritmo, forte ritmo nord europeo. Quattro quarti precisi che si mischiano deliranti all’immagine del tuo petto immobile e al tuo viso pallido e fradicio di acqua benedetta di montagna.
Guardando indietro nel tempo, mentre la carrozza celeste porta in alto nel cielo il sole e le mie tende si sbriciolano davanti alla luce, immagino ancora il giorno finale venuto a toglierti il calore dalle labbra e l’apocalisse dei tuoi giorni strattonarti inesorabilmente verso quello che viene dopo. Tuo fratello, vicino di casa nella tua ultima dimora, si danna ancora tra le fiamme dell’inferno aspettando invano che il candore della tua carne sia primavera per i campi del ricordo straziante attorno alla tua salma, e che dalla tua tomba crescano delle viole. Ahiahiahi! I diavoli ridono di lui e peggio per lui se ancora si percuote le ossa con vigore, non accettando il tuo eterno riposo. La morte, per mia colpa, mia grandissima colpa, ti ha fatto riposare, la mia colpa ha spezzato il salice, si è chiuso il sipario sulle canzoni che cantavi, si sono chiusi i tuoi folli cantici a Dio, si sono chiusi i tuoi occhi strabordanti di lacrime infiammate, si è chiuso il tuo seno ad un palmo dalle mie labbra, hai chiuso su di me la tua innocenza.
Ecco, riposa.
Io saltello affamato intorno al fuoco mentre le formiche si arrampicano sul mio balcone e fanno il solletico ai miei piedi e rubano le briciole del mio pane raffermo dei quaranta giorni di digiuno nel deserto delle mie coperte. Ho deciso che mangerò carne a pranzo. E al tavolo non si siederà nessun altro al di fuori di me, delle mie scapole, delle mie spalle e dei miei occhi pieni di film muti strappa anima guardati da embrione indifeso e nudo per sopperire ai crampi della mia colpa, immensurabile colpa. È il sangue della mia carne cotta sulla piastra che mi ricorda di quando ho visto per l’ultima volta tuo fratello e ho visto per l’ultima volta il re di Danimarca e ho visto per l’ultima volta anche Amleto. E di ognuno ho il sapore della morte tra i denti, di tutti ma non di te. Persino questo vino, che ora bevo forsennato, getta la mia mente tra le braccia delle urla di corte e di veleno fratricida. Vorrei che questa bevanda si mischiasse al mio sangue più in fretta e che potesse ridisegnare nelle mie pupille i lineamenti delle tue mandibole serrate, trasportante dalla corrente. Questa volta non per battermi il pugno sul petto, ma per seguire in silenzio con lo sguardo il tuo corpo allontanarsi dal mio. Mi basterebbe poterlo vivere quel distacco, assaporarlo, ingoiarlo, digerirlo. Non è più la colpa, no! Non è più la mia colpa, la mia eterna, straziante, massima colpa.
Sazio, mi sdraio sul pavimento celeste a braccia aperte come un angelo, con il sole che entra dalla finestra e mi scotta le piastrelle e mi scotta i polsi. Ho deciso che passerò il pomeriggio danzando avanti e indietro nella vasca da bagno, provocando tsunami che solo la mia pelle nuda e sporca potrà sentire. Leggo Hemingway, leggo Borges, leggo Virgilio, leggo le lunghe lettere che ti ho scritto e che non ti ho mai spedito. Quelle in cui ti invitavo ad aspettare insieme la fioritura delle magnolie davanti a casa mia e ti pregavo di fare presto, che la primavera sarebbe sparita in fretta e l’estate sarebbe stata un soffio e tu, ed io, saremmo tornati freddi blocchi di marmo immobili, con gli occhi spalancati di terrore sui nostri davanzali. Le parole su quelle lettere mai spedite sudano via dal foglio e nel vapore dell’acqua bollente si alzano anche tutte le parole che ti direi ora. Escono fuori dalla finestra aperta e poi salgono su nel cielo in un dolce valzer insieme a questa brezza d’aprile. Come fossero parole di un’antica preghiera o di un primordiale bisogno d’affetto.
Come sarebbe bello se tu fossi nel cielo ad aspettarle, quelle parole, e, sentendole salire insieme al vapore della mia acqua profumata, tu decidessi di scendere a scaraventare via gli stipiti della mia finestra e tirarmi fuori dalla vasca da bagno, come faceva mia madre quando ero nient’altro che un lacrimante neonato sporco. Come sarebbe bello, sì, se poi potessi guardare con me questo pomeriggio sciogliersi davanti alla fuga del sole dietro le montagne, mentre ti indico le cime che conosco e quelle che vorrei conoscere, mentre ti chiedo se sapresti riconoscere il diverso canto di ogni uccello che fa tremare i rami degli alberi, mentre io parlo, parlo a sproposito dicendoti tutto quello che non so e che non ho mai imparato e tu mi dici di stare zitto e di guardare come il pomeriggio si scioglie davanti alla fuga del sole.
Ma tu non scendi. Non irrompi nel mio bagno a fare tutte quelle cose dolci che ho sognato mentre le mie ossa tengono a galla il mio corpo. E allora sono io ad essere stanco e infastidito dal bollore dell’acqua; così inizio a grattarmi dappertutto in una follia di crisi d’astinenza e unghie nella carne. Così mi pento di tutte quelle ore sprecate in acqua e guardo le mie dita raggrinzite; mi prende un timore tale della vecchiaia e della morte che devo subito scappare e uscirne. La stanza si allaga e io quasi scivolo guardandomi allo specchio, disprezzando la mia nudità, vergognandomi della banalità del mio corpo, del mio viso, delle mie gambe e dei miei peli.
Ti sei accorta che è sera amore mio? Fa buio fuori da casa mia, è giunta ancora l’oscurità in tutto l’universo: raggiungimi presto, vieni appena puoi. Perché così mi sento ancora solo al buio. Raggiungo in fretta il mio letto e tremando di paranoiche paure di persecuzione divina, mi nascondo sotto le coperte. Nelle orecchie sento che ronzano gli orrori di un’intera umanità per violare l’intimità della mia camera da letto, così violentemente da condannarmi, ancora, al senso di colpa della tua pazzia e della tua morte. Nella mia bocca c’è il sapore stagnante della terra dove altri, non io, hanno seppellito il tuo corpo. E tremo di terrore, e mi assalgono le grida dei venti forti fuori dal mio lenzuolo che preannunciano tempesta. Ecco la pioggia che batte forte sul tetto della mia casa. Ecco come aumentare di potenza delirante la mia colpa e il mio rimorso. Magari queste gocce d’acqua sulla mia finestra fossero parole in codice che tu mi mandi per rasserenami, magari questa overture di natura impazzita fosse una tua affettuosa carezza sulla mia fronte sudata e bollente!
Non è più niente invece, se non il delirio della mia punizione.
Sudicia è la mia anima, Bruttura della mia carne. I bambini mi gridano che sono vecchio e i vecchi piangono da soli nelle loro case. I ragazzini in cerchio al parco gridano verso la mia casa: STA ARRIVANDO GUDU PESANTE GIUDICATORE DI UOMINI. GUDU! GUDU! Nella prigione dei miei ricordi, GUDU, è il penitenziario senz’anima e il governatore dei miei dolori. GUDU le cui dita sono eserciti di cannibalismo infinitesimale. GUDU, nei cui occhi si estende come una strada eterna la vita degli eretici d’amore. GUDU, la cui bocca è il capolinea di cose dolci e felici. GUDU, gli incubi della mia anima. GUDU, il pazzo fiore appassito. Ciuciacazzi GUDU. Senza amore e senza corpo in GUDU. Danzatrici del vento mi richiamano alla mia povertà di GUDU. Innalzo onirici templi antichi nella speranza che GUDU non mi prenda. Colonne erette, cazzi di granito e vagine infernali incendiate di GUDU sofferenza. Cado da macchine che cadano da burroni di campagna che finiscono su argini abbandonato mentre GUDU grida AMMORTE TU CHE NON SEI ANCORA MORTO!
GUDU è qui, annunciano gli psichiatri sovietici. GUDU vuole te, mi seduce l’harem delle mie fantasie oscene. GUDU vuole me, GUDU in cui mi siedo solo.
Disegni, Chiara Colombo
Testo, Giorgio Siciliano